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Intervista all’Avvocato Giuseppe Rossodivita

 

Buongiorno Avvocato Rossodivita, può in sintesi raccontarci la Sua storia professionale?

“In estrema sintesi, direi che la mia storia professionale è abbastanza singolare, perché il giorno dopo che superai l’esame da avvocato, fui chiamato da un personaggio che a mio avviso ha fatto la storia di questo paese, cioè Marco Pannella, il quale già conoscevo in precedenza.

Pannella mi chiese di occuparmi delle questioni legali e delle iniziative legali del Partito Radicale. Quindi la mia storia professionale è stata caratterizzata da questa attività, la quale dura tutt’oggi. Ciò mi ha dato la possibilità di seguire, non solo processi ad alta sensibilità politica e mediatica, ma poi anche tante storie di molte persone comuni, perché al Partito Radicale, per ultima chance,si rivolgono molte persone che hanno gravi problemi con la giustizia, in quanto il Partito Radicale ha dedicato gran parte delle sua attenzione ad iniziative finalizzate ad ottenere una «giustizia giusta» in Italia, che purtroppo è ancora lungi dall’esserci.”

 

Per la Sua esperienza, quali sono le criticità per la difesa, nei procedimenti ad alto impatto mediatico?

“Beh, le criticità sono molte! Nella sua domanda, lei affermava che alcuni procedimenti hanno alto impatto nell’opinione pubblica. Io ritengo che l’opinione pubblica sia abbastanza «telecomandata»dalla carta stampata e dalla televisione.

Ci sono dei procedimenti che iniziano ad attirare una certa attenzione e questo crea delle evidenti difficoltà a livello processuale, rispetto, per esempio, alla stessa terzietà del giudice. I giudici sono come tutte le altre persone, leggono i giornali, vedono la televisione, anche loro che dovrebbero arrivare al processo con una “mente vergine”, si dice così, in realtà sono poi profondamente influenzati.

Ma questo non avviene a caso, avviene per una strategia che seleziona evidentemente determinati tipi di processi, per effetto della quale poi, la veicolazione degli atti d’indaginepresso le redazioni dei giornali fa sì che si costituisca un caso.

Faccio un esempio: nel processo di «Mafia Capitale», ricorderete tutti come quando con la conferenza stampa venne preannunciata questa operazione, alla quale fu dato un nome che doveva portare l’opinione pubblica a ritenere che si trattasse di un processo per mafia, con la trasmissione dei video degli arresti di Carminati e di altri personaggi, al fine di creare un clima che avrebbe poi dovuto indirizzare il processo.

Perché avviene questo? Avviene perché vi è un interesse delle procure, che rappresentano il più importante potere che oggi esiste in Italia e che a fronte di questo potere enorme sono comunque esenti da responsabilità.

C’è una legge inadeguata sulla responsabilità civile, sulla responsabilità professionale e disciplinare, e c’è il CSM che anche i più distratti hanno potuto accorgersi di cosa si tratta.

Però questo fa sì che c’è un’alimentazione del potere che poi porta i giornalisti ad essere, come dire, un po' succubi, un po' complici, un po' conniventi, anche per un loro interesse personale. Perché poi, avere una relazione con una procura vuol dire avere la possibilità di poter disporre di atti di indagini riservate, di poterli pubblicare e di alimentare un mercato editoriale che poi porta soldi e pubblicità.”

 

Secondo Lei esiste un confine tra il legittimo giornalismo d’inchiesta e il processo mediatico?

“Secondo me si tratta di due attività completamente distinte. Il giornalismo d’inchiesta è una cosa, il processo mediatico è un’altra. Il giornalismo d’indagine e d’inchiesta, che in Italia è una rarità, porta e dovrebbe portare, a volte ha portato, troppe poche volte ha portato, alcune procure per come dire «distratte» a dover approfondire determinati fatti e far partire delle inchieste giudiziarie magari scomode.

Ma questo è il giornalismo che fa esattamente il suo dovere. Con il giornalismo d’inchiesta, il giornalismo svolge il ruolo di cane da guardia del potere. Con il processo mediatico, no! È esattamente il contrario!

Abbiamo giornalisti scendiletto delle procure che veicolano le tesi accusatorie spacciandole come verità processuali, senza però che un processo si sia ancora tenuto. E tutto questo appunto, fa sì che della vicenda processuale non se ne parli più.

Il processo mediatico comporta la distruzione dell’immagine, della professione, della vita di un essere umano.

Faccio un esempio, nel caso di Bibbiano dove un processo ancora non è iniziato, fino ad ora si sono lette e ascoltate solo le versioni dei Carabinieri che hanno svolto le indagini e che sono state «sposate» dalla Procura. Ma in questa fase, abbiamo assistito addirittura ad una revoca della misura cautelare a carico di alcuni indagati, motivata dal GIP nell’ordinanza per il fatto che non vi era alcun pericolo di reiterazione dei reati, essendo l’immagine degli indagati venuta fuori totalmente «detronizzata» dal processo mediatico in corso.

Quindi, addirittura il processo mediatico che ha determinato la distruzione dell’immagine di chi attualmente è innocente, e che lo sarà finché la sentenza nei suoi confronti non sarà divenuta definitiva, ha fatto venir meno uno dei presupposti della misura cautelare, perché è come dire: «la tua immagine è talmente distrutta, che nessuno ti darà nemmeno la mano per strada». Una persona innocente!”

 

La spettacolarizzazione dovuta al processo mediatico, quali effetti comporta sulla strategia difensiva?

“Beh, reca delle problematiche senz’altro, perché come dicevo prima, i giudici sono i primi ad esser condizionati da tutta la mole di notizie pubblicate intorno ad un determinato caso.

Pensate per esempio, ai Giudici della Corte di Cassazione che hanno annullato la sentenza con riferimento alla qualificazione come mafia, per il processo chiamato «Mafia Capitale», andando contro tutte le aspettative create da un giornalismo che aveva invece sposato fin dall’inizio le tesi della Procura di Roma. Tant’è, che tutti i giudici di merito (mi riferisco alla Corte d’Appello), non hanno avuto il coraggio di andare contro le tesi della Procura, quantunque fossero tesi in diritto alquanto singolari. Però ci si è dovuti arrivare in Cassazione, proprio per questa difficoltà nell’avere dei giudici effettivamente terzi.

A mio avviso, il processo mediatico ha portato anche a delle esigenze professionali che fino a qualche tempo fa non esistevano. Nel senso che, oggi l’avvocato, venendo al lavoro professionale vero e proprio, ma anche da un punto di vista deontologico, ha il dovere di difesa dell’immagine pubblica del suo assistito. Quindi, nel momento in cui ci si confronta con un processo ad alta mediaticità, un’attività defensionale a 360° postula anche la necessità di rapportarsi con mezzi d’informazione, per tentare di contrastare il linciaggio mediatico in corso.

Purtroppo, questo avviene con grandissime difficoltà, perché essendo il linciaggio mediatico, come dire, alimentato dagli atti provenienti da una procura, gli stessi giornalisti sentendo il potere aleggiare intorno a loro, sono molto più portati a dar spazio alle tesi dell’accusa piuttosto che a quelle della difesa.

Bisogna incontrare dei giornalisti coraggiosi, in Italia ne abbiamo qualcuno, ma sono una netta minoranza. Il resto, senza troppi problemi, utilizzando un vecchio detto, preferisce «attaccare il ciuccio dove vuole il padrone». In questo caso, il padrone è la procura, e il giornalista è colui che attacca il ciuccio dove vuole il padrone. E ne abbiamo esempi quotidiani!”

 

La spettacolarizzazione di un caso penale, quali effetti produce su un imputato?

“Sono conseguenze nefaste, perché semplicemente sono in grado di distruggere l’esistenza di una persona e a catena dei familiari. Determina un’esclusione sociale, una marginalizzazione dal mondo produttivo, un azzeramento di qualsiasi rapporto, una situazione di devastazione psicologica.

Già è grave se questo accade ad un indagato che risiede in una grande città metropolitana, come può essere Roma, Milano o Torino, ma l’Italia è fatta di ottomila piccoli comuni e immaginiamo se questo avviene nei confronti di persone, che sono la maggior parte, che vivono in piccoli centri urbani. Una persona raggiunta da un provvedimento giudiziario, anche in fase di indagini, qualora poi venga esposta al pubblico ludibrio, è una persona semplicemente morta.

Posto che, come si usava dire, «il piombo dei giornali può uccidere molto di più del piombo di un proiettile».”

 

Purtroppo, il processo penale e il processo mediatico viaggiano a due velocità differenti. Molto spesso accade che il processo giudiziario termini molto dopo quello mediatico, quando il processo non è più interessante per i media. Quali sono gli effetti sulla vita post-processuale per l’imputato?

“Avviene un percorso difficilissimo di ricostruzione di tutti i rapporti, della credibilità sociale e spesso anche della credibilità professionale. Ma è un lavoro durissimo perché la detronizzazione dell’immagine avviene nell’immediatezza, mentre l’eventuale esito positivo del processo avviene a distanza di tantissimo tempo e soprattutto, senza alcun ritorno mediatico. Per cui poi, nell’immaginario collettivo rimane fissata l’immagine, per esempio, «del mostro di …», piuttosto che l’immagine della persona ingiustamente sottoposta a processo e poi assolta. Ecco, questo fatto, per solido, non viene conosciuto!

Eppure, è uno dei problemi veramente importanti del sistema giudiziario in Italia, che ogni anno produce almeno mille vittime di errori giudiziari. In venticinque anni sono oltre ventisei mila le persone che sono state riconosciute ingiustamente detenute, sia come detenzione cautelare, che per effetto di esecuzione di sentenze definitive. Persone che sono state risarcite con 740 milioni di euro, che però paghiamo noi come contribuenti. Nel senso che poi non pagano i responsabili, intendo dire i magistrati che sono responsabili di questi errori. In Italia, non pagano!

L’accusatore di Enzo Tortora, anzi fu premiato e andò al CSM come premio. Enzo Tortora è stato l’esempio principe del processo mediatico.

I nostri ascoltatori non so quanti anni hanno, però quando arrestarono Enzo Tortora, ci furono due giornalisti che lo difesero. Tutta la stampa e la televisione italiana, sostanzialmente in modo unanime, aveva immediatamente sposato le tesi della procura. Ci furono due giornalisti e un politico, Marco Pannella, che prese a cuore e credette nella innocenza di Enzo Tortora.

Quali conseguenze produce un processo mediatico? A Enzo Tortora gli ha prodotto un tumore che ha posto termine alla sua vita. Perché si tratta di situazioni che è molto, molto molto difficile reggere. Si ha l’impressione di essere stritolati da una macchina irresistibile perché ti si muove tutto contro.

Molto spesso appunto, tutto questo è frutto di errori, in buona fede nella migliore delle ipotesi, a volte magari ci si sbaglia perché si vuole sbagliare!

Ricordandoci che le mille persone che ogni anno vengono risarcite per aver ingiustamente subito una detenzione, rappresentano la punta di un iceberg. Poiché non tutti quelli che vengono assolti hanno le possibilità economiche, la forza, per dar vita ad un altro procedimento che è quello del riconoscimento dell’errore giudiziario, dell’ingiusta detenzione.

Ma è la punta di un iceberg, il problema è grave, è quasi un problema sociale.

Noi abbiamo da smaltire un milione e mezzo di processi arretrati ogni anno. Lasciando da parte poi i procedimenti, che sono la fase delle indagini. In questo caso abbiamo oltre tre milioni di fascicoli pendenti, e questo deriva da un sistema che personalmente ritengo debba essere profondamente riformato, innanzitutto in termini di responsabilizzazione di chi detiene un potere di «vita o di morte» sulle persone.

Ogni persona dispone del bene della vita, del bene della salute, del bene della libertà e del proprio patrimonio. In passato la giustizia si occupava di tutto questo. C’era la pena di morte e c’era la tortura. Oggi, teoricamente, non c’è più pena di morte e tortura, ma la giustizia si continua ad occupare dei due beni che sono i più importanti oltre la vita e la salute, e cioè la libertà e il patrimonio.

E tutto questo, diciamo, avviene in un mondo dove i «burattinai» sono sostanzialmente svincolati da qualsiasi responsabilità. Senza togliere il fatto poi, che la pena di morte in Italia non c’è più, ma continua ad esserci la morte per pena. Cioè, tutte le centinaia di persone che ogni anno muoiono nelle patrie galere, perché si sono suicidate, per malori, perché si sono fatte suicidare, insomma per tanti motivi, e tutto questo fa sì che per la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, le nostre carceri versano in uno stato di totale illegalità,ove parametrato a quel che è scritto nella Costituzione, nelle convenzioni internazionali a cui l’Italia ha aderito, partendo in particolare dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.”

 

In questo scenario, politico, sociale, mediatico e giudiziario, esiste una soluzione? Ed in caso affermativo, di quale soluzione possiamo parlare?

“La soluzione rispetto al collateralismo dei giornali e dei giornalisti rispetto alle procure, non so se potrà mai essere una soluzione di tipo legislativo. Francamente non mi sentirei neanche di auspicarla perché la libertà di poter manifestare il proprio pensiero, è un’altra delle libertà sacre della nostra Costituzione.

Ci vorrebbe senz’altro uno scatto dal punto di vista culturale, anche in termini, come dire, di maggiore onestà professionale. Un lavorare da parte dei giornalisti con un maggior senso critico, rispetto anche alle indagini delle procure.

E semplicemente, informare per bene i lettori, perché i giornalisti che scrivono di giudiziaria in Italia, sono sempre gli stessi. È come la formazione di calcio di Bearzot, si può leggere una formazione, sono sempre gli stessi. Ogni testata a livello nazionale ha i suoi due giornalisti che hanno i rapporti privilegiati con le procure, con la Procura di Roma, con la Procura di Milano. Poi ci sono le varie edizioni locali e quindi anche i rapporti con le procure più piccoline. Ecco, maggior senso critico e minor «dipendenza» dalle declinazioni che di determinati fatti compiono le procure.

Per fare questo ci vuole la schiena dritta, ci vuole anche un’indipendenza economica che non sempre c’è!

Perché poi per i giornalisti significa avere delle fonti di lavoro. Avere delle relazioni con un ufficio di procura, significa avere una fonte di lavoro, per cui poi torno in redazione e ho il pezzo scritto, ma in realtà è il copia-incolla magari dell’ordinanza, della velina passata dalla procura.

Quindi che dire!Sicuramente ne sono state anche tentate di strade, attraverso un maggior rigore nelle norme che presidiano la pubblicazione degli atti processuali, anche adesso con le intercettazioni telefoniche.

Poi però il giornalista dal suo punto di vista, quando dice «io la notizia, se ce l’ho, comunque l’ho presa la devo pubblicare, perché questo mi impone la mia professione», dimenticando che la professione impone anche di scrivere secondo verità, obiettività e descrivendo la situazione per quella che è!

Basterebbe già non far passare ciò che dice una procura come se fosse un accertamento giudiziario e spiegare bene che in realtà è la prospettiva di una parte processuale, e che quello che si acquisisce in fase di indagine, molto spesso, ma molto molto molto molto spesso è destinato miseramente a franare nel corso del dibattimento. Per chi avesse semplicemente la voglia di andarlo a seguire il dibattimento!

Se ci si ferma al primo tempo e lo si fa passare come la fine del film, non si fa un buon lavoro, da un punto di vista professionale e anche deontologico penso!”

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